E’ una cosa difficile da capire. Voglio dire… Ci stavamo in più di mille, su quella nave, tra ricconi in viaggio, e emigranti, e gente strana, e noi… Eppure c’era sempre uno, uno solo, uno che per primo… la vedeva. Magari era lì che stava mangiando, o passeggiando, semplicemente, sul ponte, ma qualsiasi cosa stesse facendo, la sua attenzione era rivolta sempre a lei.
I raggi del sole colpivano il suo pelo arancione, segnato qua e là da macchie bianche e nere. Solo a guardarlo sembrava incredibilmente morbido. Se ne stava distesa in mezzo alla gabbia e osservava tutti con fare sospetto. La coda, sinuosa e svelta, si agitava nervosamente in alto e in basso. Il muso era di una bellezza incantevole. Una di quelle bellezze che ti tolgono il respiro e ti lasciano stupito tutto il giorno. Ma penso non vi fosse nulla di più emozionante dei suoi occhi. Appena salito sulla nave che mi avrebbe condotto dalla Cina all’India, ero stato rapito da questi due gioielli che mi fissavano, attenti a scrutare ogni mio movimento. E ora io ero lì, a pochi passi da lei. La gabbia in cui si trovava era abbastanza grande e incorporava una piccola parte del ponte, giusto per permettere all’animale più libertà di movimento. L’essere non sembrava preoccuparsi tanto dello spazio limitato in cui si trovava, quanto piuttosto alla gente che le girava attorno... Sapete com’è, c’è sempre qualche curioso che si avvicina un po’ troppo, e alla tigre irrita la cosa, lo percepisci. Un po’ come quando picchi sul vetro di un acquario, il fatto non ti sembra allarmante, ma il rumore per i pesci viene amplificato e loro soffrono. Come soffriamo noi umani, anche gli animali sentono dolore, fastidio. E’ una cosa che odio delle persone, si preoccupano solo di loro stessi; compiono azioni, ma non vogliono subirle.
Ad ogni modo ora ero lì, quasi accanto alla sua gabbia, la potevo vedere, potevo sentire il suo respiro pesante, lento, calmo, quasi liberatorio. Come se ad ogni respiro rilasciasse una parte della sua sofferenza. Magari si era anche messa a fare il conto alla rovescia, sperando di essere liberata presto. Mi avvicinai ancora un poco. Non era la prima volta che prendevo quella nave, e non era la prima volta che vedevo quella tigre. Probabilmente faceva parte di un circo, o qualche compagnia, e per questo era costretta a spostarsi continuamente. Perché era sempre la stessa tigre, su questo non avevo dubbi. La riconoscevo, come si può riconoscere una persona. Mi sedetti di fronte a lei, a pochi passi di distanza dalla sua gabbia. La guardai, non feci altro. Non parlai, non urlai, non mi divincolai. La fissai e basta. Ero sicuro che anche lei mi riconoscesse ormai, magari mi aveva anche dato un nome. Chissà. Io l’avevo chiamata Zaira, è un nome intrigante, mi è sempre piaciuto. Zaira. Sì, proprio bello...
Ad ogni modo decisi di farle un ritratto. Non sono un artista, anzi, a dir la verità non ho mai disegnato in vita mia, ma c’è sempre una prima volta. Nella tasca avevo un fazzoletto di tela e domandai in prestito una penna da alcune persone lì accanto. Il risultato finale non fu proprio un capolavoro, ma per lo meno ero riuscito a fissare le sue caratteristiche principali: il suo pelo morbido come seta, e i suoi occhi, arancioni e freddi come il ghiaccio. Finito il mio disegno, guardai Zaira un’ultima volta e mi diressi verso la mia cabina.
Quella notte fu piuttosto movimentata, il mare era in tempesta e la nave veniva spinta qua e là come una carta da gioco. Non immaginatevi cliché da film dove un naufragio distrugge la nave, io rimango l’unico superstite e trent’anni dopo mi ritrovo a raccontare questa storiella. No. Niente di simile. Quella notte è semplicemente stata molto burrascosa. La mattina dopo arrivammo in India alle prime luci dell’alba. Il mare si era calmato e non si percepiva neanche un filo di vento. I comandanti e i marinai ci ringraziarono e ci salutarono all’uscita.
Il mio ultimo sguardo fu verso la gabbia di Zaira. Vuota. Probabilmente l’avevano trasferita al coperto per via del brutto tempo...
Oggi lavoro a Brisbane, in Australia, e non mi capita più di viaggiare su quella nave. Non ho fatto in tempo a salutare quello splendido essere. A rivedere quei magnifici occhi, ad accarezzare il suo morbido pelo. Chissà se mi pensa e se ogni tanto, su quell’imbarcazione, le capita di osservare chi sale per riconoscere nelle persone il mio volto. Non parlo di amicizia, non parlo di amore, parlo solo di un forte legame che a volte unisce gli uomini agli animali.
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