la pioggia cadeva torrenziale - salvo occasionali intervalli in cui era trattenuta da violente raffiche di vento che interrompevano , per un istante, il violento scrosciare delle pesanti gocce d’acqua che precipitavano al suolo con lo schianto secco d’un proiettile. Con la sua cerata blu buttata addosso come uno straccio, e le Nike gialle e grigie oramai lise con la suola insozzata dalla molta, Martina fissava, immobile , come un fiore nato dritto dall'asfalto, la casa al lato opposto della strada senza, probabilmente, guardarla veramente. Non sapeva davvero se fosse o meno il caso di bussare; di bussare alla porta, intendeva. In fin dei conti, erano già parecchie volte che Martina percorreva i tre isolati che la separavano dal quartiere Sariga, contava uno dopo l’altro i trenta passi restanti svoltato Largo Fratelli Bandiera e rimaneva lì, semplicemente immobile, con gli occhi castani impataccati di trucco troppo scuro incollati sempre a quella stessa, medesima porta scrostata, sormontata da capitelli in finto laminato oro decadenti che perdevano, come una vecchia zingara i suoi denti, ogni giorno che passava qualche pezzo sempre nuovo.
Quindi, col cuore gonfio di tristezza, mentre principiava ad albeggiare, Martina faceva sempre dietro front, trascinando a fatica le sue gambe intorpidite di stanchezza chiuse dentro ai pantaloni rotti e stropicciati lungo la via di casa. Gambe che non le piacevano, le sue: con le caviglie fragili di una gazzella e troppa carne attaccata alle cosce; una carne esuberante ed eccessiva, per i suoi gusti. Una carne che la faceva sentire pesante e, alle volte, quasi sbagliata.
Per questo, Martina si vestiva sempre come un maschio, sebbene Mariangela non perdesse occasione per lanciare occhiate cariche di disappunto al suo chiodo di pelle sdrucito, agli anfibi con la punta logora e alle t-shirt oversize piene di scritte che si gettava addosso come un sacco. Non le piaceva mostrare il suo corpo. E a Martina, per inciso, quello che pensava quella donna che di figli proprio suoi ne aveva due (conta dalla quale lei, per contro, si riteneva drasticamente esclusa) non importava.
Da Mariangela, checché la rispettasse, e dalle sue labbra color primula costantemente atteggiate in un miliardo e più di smorfie, Martina voleva, infatti, prendere il più possibile le distanze. Le piaceva starsene da sola, costantemente aliena al mondo e trincerata dietro al muro impenetrabile del suo silenzio: e non aveva nessuna rilevanza che gli altri si sforzassero di capirla o che, viceversa, si risolvessero a considerarla irrimediabilmente svalvolata.
-Saresti carina, se ti pettinassi per bene e ti vestissi qualche volta come piace a me!- La rimproverava scherzosamente Mariangela, la cui figlia naturale, Carolina, suonava il violino da quando era bambina e portava i capelli biondi, lisci e perfetti, lunghi fino alla reni. Martina, per tutta risposta, si stringeva nelle spalle; e usciva per la scuola sentendosi ancor più piccola ed oscura, messa a paragone con la sua “sorellina”che le stava accanto mentre Carolina, per l’appunto, un po’ nascosta dietro ai suoi sorrisi fintamente imbarazzati, ammiccava ai ragazzi più carini sulla via che le portava al Ginnasio. Non Martina.
Lei, seppur circondata dall’affetto della sua famiglia adottiva, sentiva che l’incolmabilità di un divario malamente rappezzato la incatenava alla sua arrogante introversione, ai suoi vestiti neri ed all'agenda stropicciata che, come una comare il suo rosario, teneva sempre stretta forte sotto al braccio.
-Che disegni?- Le chiedeva alla sera, prima di dormire, Andreas, il figlio più piccolo di Mariangela che a volte sembrava il solo, sebbene ancora non fosse in grado di contare per sei, ad amare i suoi silenzi veramente. Ed era allora che Martina gli accarezzava i capelli biondi, morbidi come le piume di un pulcino e gli porgeva, delicatamente, il suo quaderno, perché Andreas potesse vedere coi propri occhi.
-Disegno sogni...- Rispondeva ratta e sommessa, quasi stesse sospirando.
Poi, quando la casa era avvolta nel silenzio del suo sonno, Martina beveva il suo bicchiere perché durante il viaggio non la sorprendesse la sete, infilava i capelli rossi ed indomabili dentro al cappuccio ed usciva, con i brividi incollati sulla pelle, nella notte. In un attimo era lì; di nuovo.
A fissare quel fazzoletto a giardino devastato dall'incuria e a chiedersi se, per caso, non avrebbe poi potuto esser possibile, per lei, trovarsi meglio in quella casa fatiscente che nella villetta di Mariangela , con la carta da parati a fiorellini e mille altre accortezze che la facevano sentire, quasi, un’imbucata di fortuna ad una fastosa cerimonia di nozze.
Essere una figlia adottiva era maledettamente triste, alle volte. L’estraneità biologica a quel nucleo famigliare di Martina era, d’altra parte, scritta in ogni ruga d’espressione di Mariangela : in ogni suo lineamento facciale che trovava sì un rispecchiamento sul viso perfetto di Carolina e tra le guance paffute di Andreas; ma non nel volto malinconico di lei.
Martina sospirava.
Aveva fame di “ perché” il suo volto corrucciato dagli occhi grandi e castani, dallo sfuggente nasino francese e con una bocca che guardava all'ingiù che assomigliava troppo , per davvero, a quel paio di labbra che, Martina, aveva visto solo dentro ad una fotografia.
La pioggia, però, se ne infischiava di quel buco dentro al suo cuore. Scendeva in picchiata come un gabbiano impazzito sopra la sua cerata, le si incollava agli spiragli rosei di pelle scoperta dagli strappi dei suoi jeans : rombava come una moto, come uno stomaco primordiale famelico di mangiarla tutta, coi suoi dubbi e col macigno appetitoso della sua tristezza.
Martina chiuse gli occhi, ripensando fortissimamente alla frase che Mariangela , vuoi per rabbia o per gelosia, le aveva rivolto a denti stretti, la prima volta che l’aveva scoperta che fuggiva di casa per raggiungere il Sariga.
-Non sei di certo una volpe, se credi che restartene lì impalata, fuori da quel tugurio, ti servirà a qualcosa - Le aveva detto, lasciando cadere lontano la cenere della sigaretta che fumava un po’ seccata - Non ti ha voluta allora e non ti vorrà di certo adesso, mia cara.
- Chi sei?
La porta si aprì all'improvviso, del tutto inaspettatamente, con uno cigolio secco e monocorde. L’uomo della fotografia avanzò di qualche passo mentre Martina, come un coniglio accecato dai fanali di una macchina, spalancava le iridi atterrita.
Era un uomo esile, quello che le stava di fronte: esattamente come l’aveva immaginato. Con due occhi tristi vagamente cerchiati di nero, la barba di qualche giorno appiccicata al mento ed i capelli fulvi e brizzolati se ne stava, in bilico sulla soglia di casa, semplicemente, a guardare.
La fissava, in cerca di risposte.
Martina si tolse il cappuccio, restando in silenzio. Scoprì i suoi capelli troppo ricci e spessi, il suo volto rigato di trucco e la bocca imbronciata, senza vergognarsene. Occhi negli occhi rimasero, Martina e quell’uomo col paltò, per una manciata di secondi (o forse, addirittura per qualche minuto) immobili a non fare nient’altro che non fosse, fissamente e profondamente, guardarsi.
-Oh cielo..- Boccheggiò quindi, spezzando finalmente quel silenzio gravido di attesa, l’uomo col paltò, come intontito di fronte allo splendore allibente di un’apparizione mariana -....sei bellissima.
Martina non riuscì, per qualche istante, nemmeno a respirare, come se avesse appena ricevuto un pugno dritto nello stomaco. Allora, doveva essere quello, l’effetto che faceva! Sentirselo dire, intendeva.
Non le era mai capitato, d’altronde, in diciassette anni di vita, che qualcuno le dicesse :“Sei bellissima”.
Così, quasi per gioco, Martina decise di farsi coraggio tutt’a un tratto: e lo fece in quel modo un po’ incosciente che hanno gli adolescenti di far appello ad ogni propria forza , forse. Fatto sta che, raccolto quanto più fiato lei potesse dentro al petto, alla fine, lo gridò.
-Papà!
L’uomo col paltò la fisso ancora qualche secondo, prima di aprire le braccia a suo indirizzo.
-Martina....-
I suoi occhi erano umidi.
Eppure, tutt'intorno, aveva smesso di piovere.
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