martedì 14 maggio 2013

Visioni impossibili.

Nel sogno mi trovavo al centro di Oak Street ed era notte fonda.
I lampioni erano spenti e solo la pallida luce della luna brillava sull'enorme spada che roteavo sopra la mia testa per uccidere e ferire i guerrieri di fronte a me.
Erano centinaia, se non migliaia, e sarei anche riuscito a sconfiggerli, ma, come ho già  detto, quello era solo un sogno. In realtà mi trovavo davvero al centro di Oak Street, ma ciò che tenevo in mano era solo un palloncino a cui era stata data la sagoma di spada da un pagliaccio. E pensare che nemmeno mi piaceva, specialmente per quel virile colore rosa. Ma cosa volete farci? Se vostra figlia vi chiede di accompagnarla alla festa di compleanno dell'amica Susie, nipote dei vicini di casa, accontentarla é il minimo che possiate fare. E allora perché, in una giornata tanto importante, felice e serena, l'unico desiderio che avevo in mente era di scappare?
Vi siete mai sentiti fuori posto? Non all'altezza? Quasi inutili? Il giorno prima avevo percorso la strada che separa Oak Street da Winsday Garden a piedi. Sono più di quattro miglia; peccato solo che fossero le tre di notte. Ultimamente mi capita di non riuscire a dormire per colpa dell'ansia che mi assale appena chiudo gli occhi; temo sempre di non riuscire a riaprirli.
Cercai di scacciare i cattivi pensieri e mi alzai dalla panchina su cui mi trovavo. Allacciai il cappotto e mi infilai il cappello di lana in modo che mi coprisse anche le orecchie, e mi avviai, deciso a dirigermi verso il cimitero comunale. In lontananza si poteva udire solo un lieve gufare che interrompeva il fragoroso silenzio del paesaggio circostante. Camminavo con passo piuttosto lento, tanto sapevo che nessuno a casa mi stava aspettando. Elisa, rimasta a dormire a casa di Susie, probabilmente ora si trovava già sotto le coperte. Attorno a me non vi era illuminazione, ma vedendo di fronte a me quell'imponente faggio, capii di essere quasi arrivato. Ora dovevo solo attraversare la strada. Nonostante l'insolito orario, guardai a destra e sinistra prima di attraversare, ma prima di muovere il primo passo sentii chiamare il mio nome. Alzai lo sguardo: dritta di fronte a me una figura opaca e slanciata mi fissava con occhi spenti. Era così strana, eppure cosìfamiliare. Ancora oggi mi chiedo quale strana motivazione non mi permise di correre via come un matto urlando; avevo avuto fegato, diciamo. Non era un fantasma, ci doveva essere una spiegazione logica. Per rendere la situazione ancora più drammatica vi basti sapere che quello strano essere iniziò a piangere. Convinto allora che si trattasse di una persona in carne ed ossa mi avvicinai per domandare se avesse bisogno di aiuto. Come allungai la mano per asciugare le lacrime, la figura svaní, lasciandomi con un pugno d'aria e con una sensazione di umido sul palmo.
Più confuso che spaventato mi recai poi al cimitero e mi diressi verso la tomba di mia moglie Charlotte, scomparsa cinque anni prima, poco dopo la nascita della piccola Elisa. La lastra di cemento era lucida e pulita, e i fiori non erano ancora appassiti. Gigli, i suoi preferiti. La foto sulla tomba era una delle migliori che avesse mai scattato, metteva in risalto tutta la sua bellezza, era un'esplosione di vitalità. L'amavo ancora come il primo giorno. Diedi un bacio sul mio palmo e poi lo passai sulla sua immagine. Quando la ritirai mi accorsi che era umida. Sulla mia mano vi era una lacrima, e profumava di Charlotte.

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