martedì 26 novembre 2013

Siamo nati per morire.

E fu proprio in una fresca giornata d’autunno, che la vidi per la prima volta.
Una donna bellissima, dai tratti estremamente fini, dal volto fresco, una giovinezza ancora in esposizione. Pareva una dea. Così pura, cosi perfetta. Quel suo modo balordo e stravagante nel vestire, mi trasmetteva un certo gusto. Ricca in ogni singolo particolare. Un velo di un marrone delicato, le ricadeva sulle spalle, ornato da splendide rifiniture e ricami in oro. Si rigirava fra le dita, freneticamente, una collana aurea.  La gonna bianca, la faceva somigliare ad un angelo. Decorazioni in argento ricoprivano in tre fasce distanti l’una dall’altra, la leggera sottana. Il tutto ricoperto da un morbido e tenue manto . Il manto era zecchino e presentava degli sbuffi inconsistenti e vaporosi. Arricchito con dei lunghi, dolci tratti in un color oro ancor più scuro. Dalle maniche fuoriusciva un doppio strato cucito a mano in seta, con ghirigori in bianco e argento.  Esso era allacciato al di sopra della vita, al di sotto del petto della donna. Fungeva da cintura. Una mano protetta da un guanto bruno, sorreggeva lievemente la pelliccia di un furetto  dal pelo castano. Dai capelli partiva una treccia, che le avvolgeva l’intero capo. Ai lobi vi erano due pendenti in madreperla. Ed il suo sguardo. Come dimenticarlo. Dunque, la vidi. Se ne stava là dedita, su di una panchina in marmo bianco, a leggere un romanzo. Amava leggere. Amava la letteratura.  Era come se fosse stata inglobata, intrappolata, in quelle pagine nere e bianche. Senza via di uscita. Catturata dalla potenza delle parole. Piena di mistero. Quando distoglieva lo sguardo da tutta quella fantasia, e riprendeva conoscenza , i suoi occhi parevano vaghi. In cerca di un qualcosa, un qualcosa di cui si ha la piena certezza che mai arriverà. La scrutavo attentamente, me ne stavo dietro una possente quercia. Una quercia stabile, rossa, gialla, arancio. Aveva preso i colori dell’autunno. Sentii un mormorio. Ella, con un sol gesto, afferrò avidamente l’ultima pagina del romanzo. La strappò con violenza. La scisse in mille pezzi. Facendo ciò, singhiozzava.

“Piedi, non abbandonatemi ora
Portatemi al traguardo
Sento il mio cuore spezzarsi
ad ogni passo che faccio” 

Non capivo la situazione. Ancora un vento misterioso, mi scostava i lunghi capelli. Uscì di colpo da dietro la grande quercia, di scatto, all’improvviso. Lei si spaventò. La abbracciai. Lei mi guardò sorpresa. Una perfetta sconosciuta che ora la teneva fra le sue braccia. Lei mi prese la mano e cominciammo a correre verso mete sconosciute. Non sapevo cosa stesse succedendo. Ma ero curiosa di sapere come sarebbe andata a finire. Pensavo di esserle amica da una vita. Di conoscerla da tanti anni. Una mia seconda sorella. Arrivammo dietro un fruttivendolo, lei rubò frettolosamente una fra le bici parcheggiate sul retro, e mi disse:
“Salta su e  dimmi come ti chiami.”
“Mi chiamo Charlotte.”
“Io sono Geneviève.”

E partiva più veloce che mai. Più forte di tutto e di tutti. Non sapevo, non volevo sapere. Mi facevo solo trasportare dalla gioia, dalla felicità, dalla trasgressione. Era proprio quel vago “non sapere”, che m’intrigava. Adrenalina. Andammo in boschi colorati, strade scoscese, sterrate, tornanti. Ci fermammo ad un ruscello, lei si abbeverò un poco, dopodiché ripartimmo. Non mi aveva più rivolto parola per tutto il viaggio. Arrivammo ad un ponte altissimo. Sotto di esso un fiume impaziente. Si sedette sul ponte, mi tese le mani per invitarmi a fare lo stesso. Così feci. Io e lei. Sedute su di quel ponte. Ad ammirare il tramonto. L’acqua divenne rosea e il sole camminava sul letto del fiume. Lei mi guardò intensamente negli occhi. Una lacrima le rigò il pallido volto. Il volto dallo stesso sguardo vago di qualche ora prima, quando si fermava a riflettere dopo aver letto qualche riga del romanzo misterioso. Si mise in piedi sulla stretta costruzione in legno. Un sussulto al cuore. Per l’ultima volta aprì bocca e sussurrò: “SIAMO NATI PER MORIRE”. Aprì le braccia. Un corpo inanime, si lasciò cullare dalla brezza, aspettando ansiosamente di cadere rumorosamente nello specchio d’acqua sottostante. Rimasi come incantata, spaventata, affranta, spossata.  Desiderai con tutto il cuore di non riuscire a sentire il tonfo del corpo della fanciulla. Mi tappai le orecchie. Strizzai gli occhi. Ora lacrime mi bagnavano completamente il viso distrutto. Trovai un foglietto, un pezzo di carta. Lo aprii.
“ La malattia mi sta uccidendo. Oggi è il mio ultimo giorno di vita. Desidero divertirmi, lasciarmi andare. Lo voglio vivere al meglio. “


                                                                                                                                                              Geneviève.

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