E fu proprio in una fresca giornata d’autunno, che la vidi
per la prima volta.
Una donna bellissima, dai tratti estremamente fini, dal
volto fresco, una giovinezza ancora in esposizione. Pareva una dea. Così pura,
cosi perfetta. Quel suo modo balordo e stravagante nel vestire, mi trasmetteva
un certo gusto. Ricca in ogni singolo particolare. Un velo di un marrone
delicato, le ricadeva sulle spalle, ornato da splendide rifiniture e ricami in
oro. Si rigirava fra le dita, freneticamente, una collana aurea. La gonna bianca, la faceva somigliare ad un
angelo. Decorazioni in argento ricoprivano in tre fasce distanti l’una dall’altra,
la leggera sottana. Il tutto ricoperto da un morbido e tenue manto . Il manto
era zecchino e presentava degli sbuffi inconsistenti e vaporosi. Arricchito con
dei lunghi, dolci tratti in un color oro ancor più scuro. Dalle maniche
fuoriusciva un doppio strato cucito a mano in seta, con ghirigori in bianco e
argento. Esso era allacciato al di sopra
della vita, al di sotto del petto della donna. Fungeva da cintura. Una mano protetta
da un guanto bruno, sorreggeva lievemente la pelliccia di un furetto dal pelo castano. Dai capelli partiva una
treccia, che le avvolgeva l’intero capo. Ai lobi vi erano due pendenti in
madreperla. Ed il suo sguardo. Come dimenticarlo. Dunque, la vidi. Se ne stava
là dedita, su di una panchina in marmo bianco, a leggere un romanzo. Amava
leggere. Amava la letteratura. Era come
se fosse stata inglobata, intrappolata, in quelle pagine nere e bianche. Senza
via di uscita. Catturata dalla potenza delle parole. Piena di mistero. Quando
distoglieva lo sguardo da tutta quella fantasia, e riprendeva conoscenza , i
suoi occhi parevano vaghi. In cerca di un qualcosa, un qualcosa di cui si ha la
piena certezza che mai arriverà. La scrutavo attentamente, me ne stavo dietro
una possente quercia. Una quercia stabile, rossa, gialla, arancio. Aveva preso
i colori dell’autunno. Sentii un mormorio. Ella, con un sol gesto, afferrò
avidamente l’ultima pagina del romanzo. La strappò con violenza. La scisse in
mille pezzi. Facendo ciò, singhiozzava.
“Piedi, non abbandonatemi ora
Portatemi al traguardo
Sento il mio cuore spezzarsi
ad ogni passo che faccio”
Non capivo la situazione. Ancora un vento misterioso, mi
scostava i lunghi capelli. Uscì di colpo da dietro la grande quercia, di
scatto, all’improvviso. Lei si spaventò. La abbracciai. Lei mi guardò sorpresa.
Una perfetta sconosciuta che ora la teneva fra le sue braccia. Lei mi prese la
mano e cominciammo a correre verso mete sconosciute. Non sapevo cosa stesse
succedendo. Ma ero curiosa di sapere come sarebbe andata a finire. Pensavo di
esserle amica da una vita. Di conoscerla da tanti anni. Una mia seconda
sorella. Arrivammo dietro un fruttivendolo, lei rubò frettolosamente una fra le
bici parcheggiate sul retro, e mi disse:
“Salta su e dimmi
come ti chiami.”
“Mi chiamo Charlotte.”
“Io sono Geneviève.”
E partiva più veloce che mai. Più forte di tutto e di tutti. Non sapevo, non volevo sapere. Mi facevo solo trasportare dalla gioia, dalla felicità, dalla trasgressione. Era proprio quel vago “non sapere”, che m’intrigava. Adrenalina. Andammo in boschi colorati, strade scoscese, sterrate, tornanti. Ci fermammo ad un ruscello, lei si abbeverò un poco, dopodiché ripartimmo. Non mi aveva più rivolto parola per tutto il viaggio. Arrivammo ad un ponte altissimo. Sotto di esso un fiume impaziente. Si sedette sul ponte, mi tese le mani per invitarmi a fare lo stesso. Così feci. Io e lei. Sedute su di quel ponte. Ad ammirare il tramonto. L’acqua divenne rosea e il sole camminava sul letto del fiume. Lei mi guardò intensamente negli occhi. Una lacrima le rigò il pallido volto. Il volto dallo stesso sguardo vago di qualche ora prima, quando si fermava a riflettere dopo aver letto qualche riga del romanzo misterioso. Si mise in piedi sulla stretta costruzione in legno. Un sussulto al cuore. Per l’ultima volta aprì bocca e sussurrò: “SIAMO NATI PER MORIRE”. Aprì le braccia. Un corpo inanime, si lasciò cullare dalla brezza, aspettando ansiosamente di cadere rumorosamente nello specchio d’acqua sottostante. Rimasi come incantata, spaventata, affranta, spossata. Desiderai con tutto il cuore di non riuscire a sentire il tonfo del corpo della fanciulla. Mi tappai le orecchie. Strizzai gli occhi. Ora lacrime mi bagnavano completamente il viso distrutto. Trovai un foglietto, un pezzo di carta. Lo aprii.
“ La malattia mi sta uccidendo. Oggi è il mio ultimo giorno
di vita. Desidero divertirmi, lasciarmi andare. Lo voglio vivere al meglio. “
Geneviève.
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