Ormai il sole era calato da tante ore nei campi del Texas, dove la pelle di Danjuma si confondeva con il buio della notte. Gli unici ‘‘bianchi’’ erano quelli dei suoi due grandi occhi stanchi e spaventati,
e nel cielo l’alta luna, che nell’oscurità lo fissava, forse la sua unica amica.
Non si sentiva che il fruscio dell’alta erba che Danjuma spostava correndo, il suo respiro affannato, e a volte alcuni ululati di bestie che si trovavano nel paraggi.
Da ore non faceva che fuggire, i piedi scalzi erano affaticati, graffiati e feriti, come d’altronde la sua schiena era colma di cicatrici che non facevano mai in tempo a guarire.
Ecco che lo schiavo era inciampato un’altra volta, ma questa volta non si alzò subito.
Rimase qualche secondo, in ginocchio, forse per la debolezza o forse per i dolori delle ferite su tutto il corpo.
Si accorse che la gamba aveva ripreso a sanguinare, e con le lacrime agli occhi dalla stanchezza, strappò una fascia di tessuto da quello che rimaneva della sua camicia e la legò stretta allo sfregio.
Fece solo in tempo a pensare a quanto fosse difficile la sua vita e a quante volte avrebbe voluto mettere la parola ‘‘fine’’ alla sua esistenza... ma forse gli mancava coraggio...
Danjuma si chiedeva più volte, sin da bambino, chi avesse deciso la sua sorte, perché gli aspettava un così crudele destino...
Il ragazzo aveva tanti interrogativi in mente, ma non poté pensare più a lungo perché si udirono dei cavalli in lontananza e dei cani da caccia correre verso la sua direzione.
I bianchi erano sulle sue tracce.
Il ragazzo, con il cuore che batteva forte dall’agitazione, riprese a correre, i suoi padroni l’avevano quasi scoperto.
Durante la fuga Danjuma non si accorse dei luminosi, caldi e confortanti colori del cielo, che pian piano coprivano i campi come un manto innocente...
... era tardi, era già mattina.
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