La notte del trenta agosto 2039 un'ondata di caldo
eccezionale soffocava gli Stati Uniti. Il termometro a New York segnò
quarantadue gradi; a mezzanotte tutte le docce della città emisero un ululato
di agonia, e il rantolo delle tubature annunciò che l'erogazione di acqua era
sospesa fino alle otto di mattina. Eravamo tutti preoccupatissimi. Vedevo le
famiglie di fianco a casa mia andarsene, scappare via con i propri bambini
verso altri paesi, verso l’Europa. Io non sapevo che fare. Ero spaventata, ma
anche confusa perché sentivo alla televisione che il presidente diceva di stare
tutti calmi, ma vedevo praticamente tutti partire. Non ricordavo un caldo così
devastante, in America. Il terremoto giocava a ‘un, due, tre, stella’: si
fermava e ripartiva. Io cominciai a fare la valigia per partire, non so per
dove, ma per partire. Squillò il telefono. Era il mio ex, Thomas, che si ‘preoccupava’
per me. Come al solito litigammo, ma riattaccai. Misi le cose essenziali
dentro, per questo avevo bisogno di tre valigie. Finta l’ultima, presi le
chiavi della macchina e me ne andai. Una volta in macchina decisi la
destinazione: Madrid. Mi misi il cuore in pace e partii per una meta che, in
macchina, sarebbe durata un’eternità. Salutai la mia fantastica casetta e
partii. Accesi l’auto, ma
Buio.
Buio.
Aprii gli occhi e vidi delle strane luci. Avevo accanto una
ragazza, vestita di verde, che si mise a urlare come una matta solo perché avevo
aperto gli occhi. Avevo male ovunque.
Mi disse solo che il mio bambino non ce l’aveva fatta. All’inizio
non capii, ma poi tutto era chiaro. Aspettavo il figlio di Thomas. Per il
terremoto un albero è caduto sulla mia auto, non mi ha preso in pieno, se no
non sarei qui, ma nell’incidente il bambino ha ceduto. Il vuoto.
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