Ho sofferto molto la morte di mio figlio Icaro, ma nei miti continuano a descrivermi come un personaggio freddo che si limita a costruire nuove invenzioni. Inoltre la storia di mio figlio e della sua morte è narrata con poco più di cinque righe.
Quindi oggi, io, Dedalo, vi narrerò questa storia.
Mi trasferii a Creta, dopo essere scappato da Atene. Li fui accolto alla corte del re Minosse. Attirai l’attenzione di una giovane schiava del re che era affascinata dalle mie opere. Mi unì a lei e nacque mio figlio Icaro.
In seguito aiutai Pasifae, la moglie di Minosse. Le costruii una mucca di legno nella quale si accoppiò con il toro sacro inviatole da Poseidone. Dalla loro unione nacque qualcosa di mostruoso, un essere metà uomo e metà toro chiamato Minotauro che fu rinchiuso in un labirinto progettato da me medesimo. Dopo che lo finii il re rinchiuse pure mio figlio e me nel labirinto che io avevo costruito. Che sciocco.
All’inizio non sapevo in che modo fuggire, ma dopo ebbi l’illuminazione. Saremmo scappati volando sopra al labirinto. Con l’aiuto di Icaro costruimmo le ali e le fissammo al nostro corpo con della cera. Prima di partire mi assicurai che Icaro si ricordasse i miei avvertimenti.
Sin da bambino Icaro è sempre stato un ragazzo che voleva eccellere. Lui doveva sempre dimostrare che era un gradino più avanti rispetto agli altri. Mi ha sempre ricordato un po’ me stesso da giovane. Non ho mai pensato che questa sua caratteristica fosse un problema e per questo l’ho sempre lasciato fare. Però mi rimaneva il timore che lui, volendo strafare, avrebbe rischiato la vita. Allora per l’ultima volta gli ripetei che non doveva avvicinarsi troppo al sole o la cera sarebbe sciolta. Lui annuì con fare annoiato, ma non avevo tempo di assicurarmi se mi avesse ascoltato seriamente. Sentimmo i passi delle guardie che si dirigevano verso la nostra cella e capimmo che quello fu il giusto momento per spiccare il volo.
Mentre volavamo tenni d’occhio Icaro, ma lui era appena poco sotto di me, lontano dal sole. Non avevo motivo di preoccuparmi. Mi distrassi due secondi, giusto il tempo che Icaro impiegò per arrivare alla mia altezza e superarla. Provai ad avvertirlo. Gli gridai di tornare giù. Niente da fare, non ne voleva sapere.
Qualche instante prima che si avvicinasse così al sole, gli occhi di mio figlio brillarono di una luce strana. Sembrava una falena che, attirata dalla luce, finiva in trappola.
Vidi che non si era ancora deciso a scendere ma continuava ad alzarsi di quota allora feci uno scatto per raggiungerlo, ma l’orrore mi annebbiò la vista. Pezzi di cera roventi misti a piume colavano dalla sua schiena, lui lanciò un urlo e iniziò a battere freneticamente i pezzi di ali rimasti, cercando di riprendere la stabilità e ritornare a volare, ma, quando sembrava che ce la stesse per fare, si staccò un pezzo d’ala e piombò nel mare come un proiettile.
Io ero rimasto lì, ad assistere alla scena bloccato dall’orrore. Piano a piano iniziarono ad assalirmi un mare di emozioni e consapevolezze. Mi sentivo responsabile della sua morte e di non aver tentato di salvarlo invece di rimanere lì impalato a far nulla.
Mi accolsi che a qualche decina di metri di distanza c’erano le coste della Sicilia. Ce l’avremmo quasi fatta.
Fui tentato di buttarmi in mare pure io, ma poi mi ricordai che non sarebbe stato ciò che mio figlio avrebbe voluto. Allora mi diressi verso le coste della Sicilia cercando di lasciarmi, invano, Icaro alle spalle.
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