Serepta fu il mio nome: lo
stesso nome con cui i nativi Americani designavano quella condizione di
beatitudine e di pace che, durante i tormenti della mia adolescenza, io non ho
mai conosciuto.
Nacqui in un piccolo villaggio sulle sponde di un fiume,
durante una fredda giornata di Novembre: mia madre scelse per me il nome che
portai perché venni al mondo placida e priva di difese, a differenza degli
altri neonati; senza lottare con la violenza invasiva di quella nuova vita che
mi accoglieva levando un pianto di protesta, senza deformare la mia piccola
bocca nell'impeto stravolto di un singhiozzo. Avevo capelli neri e folti, pelle
pallida e due piccoli occhi neri, come capocchie di spillo luccicanti: erano
occhi che si compiacevano di nascondere un segreto, i miei. Il segreto della
più perfetta infelicità.
Non un giorno
della mia breve vita è stato vissuto, infatti, senza che nel mio cuore serpeggiasse
un senso di angoscia profonda, di totale estraneità a quel mondo dal quale mi
sentivo totalmente incompresa: ma amando troppo la mia cara mamma (cagionevole di salute e rimasta vedova in
giovane età), mi preoccupai di non fare mostra della tristezza che provavo
con nessuno, fino al mio ultimo respiro. Condividevo le mie più intime
preoccupazioni solamente con Napoleon, il grosso cane pastore ultimo dono di
mio padre: era l’unico che mi vegliava instancabilmente mentre trascorrevo ore
a dipingere, cercando di gettare sulla tela i tormenti a cui mai avrei avuto il
coraggio di dare voce se non attraverso il mio pennello.
Ogni giorno, dopo la scuola, mi chiudevo infatti
nella mia stanza: soltanto in quel luogo sentivo di poter raggiungere un
Perfetto Equilibrio .
Attraverso le persiane semichiuse non penetrava mai sufficiente luce perché i miei
occhi potessero restarne storditi; né pesava un’oscurità tale da impedirmi di
vedere. Ogni pomeriggio , così, dipingevo: dipingevo su tele e cavalletti
scricchiolanti squarci di paesaggi decadenti e crepuscoli di campagna. Dipingevo
infinite processioni di blu notte, grigio fumo, marrone scuro, nero seppia;
senza essere mai paga di gettare sulla tela le ombre minacciose della mia mente,
senza riuscire mai a sentirmi sazia della forza vibrante dell’atto rivelatore
del colore acrilico e degli acquerelli accesi. Alle volte, proprio mentre ero
all’opera, realizzavo improvvisamente il
senso profondo del mio isolamento: la scelta consapevole di un animo che
sentiva di non avere nulla da donare agli altri ed aveva deciso, quindi, di
rifiutare a priori la bruttura del mondo per non esserne dolorosamente
rifiutato. Poteva bastarmi?
Una soffocante morsa d’invidia mi stritolava pur sempre il cuore,
osservando le mie compagne di scuola alle prese con i primi amori della
gioventù: quegli stessi amori che io, forse per paura di non esserne all’altezza,
avevo volontariamente respinto.
La mia vita finì così per risolversi, esclusivamente, in una lunga ed
estenuante attesa: trincerata nella mia torre di silenzi fui proprio come una malinconica
Principessa che, nella speranza di
essere presto tratta in salvo dal suo Principe, si arrende alla perpetua
immobilità.
“Perché non esci con qualche amica, di tanto in tanto?”- Cercava
spesso di esortarmi mia madre : la poverina iniziava ad avvedersi che qualcosa,
evidentemente, in me non andava. Tuttavia, così esortata, io sorridevo senza
parlare: non riuscii mai a confessarle a cuor leggero che, purtroppo, io non
avevo alcun’amica, perché ero troppo timida e sofferente per accettare di
sperimentare quel piccolo atto di coraggio che aprirsi ad un’altra persona inevitabilmente
comporta.
Stanca di aspettare che
qualcosa cambiasse, che un piccolo miracolo mi benedicesse, un brutto giorno
raggiunsi il fiume, mentre mia madre era lontana da casa per vendere le sue
creazioni di passamaneria al mercato. Stetti a lungo ad osservare le sue
sponde, irte di canne e scoscese di terra umida e di molta; tuttavia, fu infine
il desiderio di non far torto alla mia povera mamma ad averla vinta sui miei
vaghi propositi di togliermi la vita. Nonostante ciò, il fato crudele aveva dal
canto suo già scelto che cosa fosse più opportuno per me: quel Nume diabolico, incurante
del mio atto di generosità, mi fece inciampare sul terreno instabile e bagnato,
trascinandomi nelle acque già ghiacciate dall'inverno imminente.
Le stesse acque dalle
quali non riemersi mai.
Soltanto ora che sono
polvere, drammaticamente, ho realizzato le infinite possibilità, la potenza ed
il significato di quella vita che scelsi deliberatamente di non vivere. Eppure,
non ho ancora rinunciato a levare il mio grido di protesta: tanto crudele fu il
destino con me, scegliendo di negarmi la possibilità di aprirmi finalmente a
quel mondo che così immensamente odiavo e amavo insieme! La mia unica speranza, tuttavia, è che i miei
deboli sussurri possano giungere, seppur da questa lapide, all'orecchio di
qualche benevolo viandante disposto a
prestarvi ascolto: che la mia tragica storia sia lezione per quelle anime che, oppresse dalla loro fragilità, si
arrendono a subire la forza della vita! Non siate così sciocchi da sfidare quello
stesso destino che ha voluto farvi il dono immenso della nascita: vivete, amici
miei e facciate in modo che il più grande peccato di cui possiate macchiarvi
non sia mai non aver vissuto affatto.
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