lunedì 16 dicembre 2013

Rimpianti dalla tomba.

Serepta fu il mio nome: lo stesso nome con cui i nativi Americani designavano quella condizione di beatitudine e di pace che, durante i tormenti della mia adolescenza, io non ho mai conosciuto.
Nacqui in un piccolo villaggio sulle sponde di un fiume, durante una fredda giornata di Novembre: mia madre scelse per me il nome che portai perché venni al mondo placida e priva di difese, a differenza degli altri neonati; senza lottare con la violenza invasiva di quella nuova vita che mi accoglieva levando un pianto di protesta, senza deformare la mia piccola bocca nell'impeto stravolto di un singhiozzo. Avevo capelli neri e folti, pelle pallida e due piccoli occhi neri, come capocchie di spillo luccicanti: erano occhi che si compiacevano di nascondere un segreto, i miei. Il segreto della più  perfetta infelicità. 
Non un giorno della mia breve vita è stato vissuto, infatti, senza che nel mio cuore serpeggiasse un senso di angoscia profonda, di totale estraneità a quel mondo dal quale mi sentivo totalmente incompresa: ma amando troppo la mia cara mamma (cagionevole di salute e rimasta vedova in giovane età), mi preoccupai di non fare mostra della tristezza che provavo con nessuno, fino al mio ultimo respiro. Condividevo le mie più intime preoccupazioni solamente con Napoleon, il grosso cane pastore ultimo dono di mio padre: era l’unico che mi vegliava instancabilmente mentre trascorrevo ore a dipingere, cercando di gettare sulla tela i tormenti a cui mai avrei avuto il coraggio di dare voce se non attraverso il mio pennello. 
Ogni giorno, dopo la scuola, mi chiudevo infatti nella mia stanza: soltanto in quel luogo sentivo di poter raggiungere un Perfetto Equilibrio . Attraverso le persiane semichiuse non penetrava mai sufficiente luce perché i miei occhi potessero restarne storditi; né pesava un’oscurità tale da impedirmi di vedere. Ogni pomeriggio , così, dipingevo: dipingevo su tele e cavalletti scricchiolanti squarci di paesaggi decadenti e crepuscoli di campagna. Dipingevo infinite processioni di blu notte, grigio fumo, marrone scuro, nero seppia; senza essere mai paga di gettare sulla tela le ombre minacciose della mia mente, senza riuscire mai a sentirmi sazia della forza vibrante dell’atto rivelatore del colore acrilico e degli acquerelli accesi. Alle volte, proprio mentre ero all’opera, realizzavo improvvisamente  il senso profondo del mio isolamento: la scelta consapevole di un animo che sentiva di non avere nulla da donare agli altri ed aveva deciso, quindi, di rifiutare a priori la bruttura del mondo per non esserne dolorosamente rifiutato. Poteva bastarmi?
Una soffocante morsa d’invidia mi stritolava pur sempre il cuore, osservando le mie compagne di scuola alle prese con i primi amori della gioventù: quegli stessi amori che io, forse per paura di non esserne all’altezza, avevo volontariamente respinto.
La mia vita finì così per risolversi, esclusivamente, in una lunga ed estenuante attesa: trincerata nella mia torre di silenzi fui proprio come una malinconica Principessa  che, nella speranza di essere presto tratta in salvo dal suo Principe, si arrende alla perpetua immobilità.

Perché non esci con qualche amica, di tanto in tanto?”- Cercava spesso di esortarmi mia madre : la poverina iniziava ad avvedersi che qualcosa, evidentemente, in me non andava. Tuttavia, così esortata, io sorridevo senza parlare: non riuscii mai a confessarle a cuor leggero che, purtroppo, io non avevo alcun’amica, perché ero troppo timida e sofferente per accettare di sperimentare quel piccolo atto di coraggio che aprirsi ad un’altra persona inevitabilmente comporta.
Stanca di aspettare che qualcosa cambiasse, che un piccolo miracolo mi benedicesse, un brutto giorno raggiunsi il fiume, mentre mia madre era lontana da casa per vendere le sue creazioni di passamaneria al mercato. Stetti a lungo ad osservare le sue sponde, irte di canne e scoscese di terra umida e di molta; tuttavia, fu infine il desiderio di non far torto alla mia povera mamma ad averla vinta sui miei vaghi propositi di togliermi la vita. Nonostante ciò, il fato crudele aveva dal canto suo già scelto che cosa fosse più opportuno per me: quel Nume diabolico, incurante del mio atto di generosità, mi fece inciampare sul terreno instabile e bagnato, trascinandomi nelle acque già ghiacciate dall'inverno imminente.
Le stesse acque dalle quali non riemersi mai.


Soltanto ora che sono polvere, drammaticamente, ho realizzato le infinite possibilità, la potenza ed il significato di quella vita che scelsi deliberatamente di non vivere. Eppure, non ho ancora rinunciato a levare il mio grido di protesta: tanto crudele fu il destino con me, scegliendo di negarmi la possibilità di aprirmi finalmente a quel mondo che così immensamente odiavo e amavo insieme!  La mia unica speranza, tuttavia, è che i miei deboli sussurri possano giungere, seppur da questa lapide, all'orecchio di qualche  benevolo viandante disposto a prestarvi ascolto: che la mia tragica storia sia lezione per quelle anime  che, oppresse dalla loro fragilità, si arrendono a subire la forza della vita!  Non siate così sciocchi da sfidare quello stesso destino che ha voluto farvi il dono immenso della nascita: vivete, amici miei e facciate in modo che il più grande peccato di cui possiate macchiarvi non sia mai  non aver vissuto affatto. 

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